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Ricerca di Stimulus Italia nella Giornata della salute mentale
Le buone relazioni tra i colleghi, il sentirsi stimati e riconosciuti, la percezione che in azienda i trattamenti siano equi: queste variabili aiutano a sopportare la fatica dei ritmi di lavoro odierni nelle imprese italiane. In un contesto in cui il workload è pressante e il rischio di esaurire le energie è dietro l’angolo, per i professionisti e le professioniste diventa importante, nel ruolo di fattore protettivo, il clima che si respira al lavoro.
È quanto emerge dalla ricerca “Le dimensioni psicosociali del benessere mentale”, realizzata da Stimulus Italia, società di consulenza esperta di sviluppo organizzativo, specializzata nel benessere psicologico nei luoghi di lavoro, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Alma Mater Studiorum Università di Bologna e il Dipartimento di Scienze Economiche, Aziendali e Statistiche dell’Università degli Studi di Palermo. La ricerca vede la manifestazione di interesse del Consiglio Nazionale Ordine Psicologi. Si tratta del primo studio su larga scala che applica, in Italia, il modello Job Demands-Resources, uno strumento consolidato nella psicologia del lavoro, che mette in relazione le richieste (Demands) e le risorse (Resources) presenti nelle organizzazioni, individuando potenziali fattori protettivi e di rischio per il benessere psicologico.
Le interviste sono state realizzate in 59 imprese, per un totale di 8572 risposte: è il campione più alto, rispetto agli studi di argomenti analoghi, per numero di interviste sul territorio nazionale. Tra coloro che hanno risposto, vi sono manager per il 21,9% e professionisti in altre funzioni per il 78,1% tra questi, il 9,25% è in amministrazione, finanza e controllo; il 20,98% nel commerciale/vendite; il 5% in gestione del personale e organizzazione; il 3% in marketing e comunicazione; il 5,53% in consulenza; il 5,69 in ricerca e sviluppo; il 4,78 in sistemi informatici; il 5,96% in assistenza ai clienti; il 7,01 in manutenzione e supporto tecnico; il 10,11% in produzione; il 4,32 in logistica; il 18,36% in altre posizioni lavorative. Per quanto riguarda l’età degli intervistati, l’8,12% ha meno di 30 anni: il 23,45% è tra i 30 e 40; il 32,96% si colloca nella fascia 41-50; il 30,6% tra i 51 e i 60 anni; il 4,84% ha più di 60 anni.
Ha dichiarato Pietro Bussotti, staff di Presidenza CNOP per la Psicologia del Lavoro, Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi: “Conoscere dati specifici sul benessere dei lavoratori, emersi da questa grande ricerca, offre un contributo significativo al miglioramento delle condizioni lavorative. Queste informazioni permettono infatti alle aziende di identificare aree critiche e intervenire in modo mirato per promuovere un ambiente di lavoro più sano e produttivo. Inoltre, migliorando il benessere dei dipendenti, le organizzazioni possono ridurre conseguenze sistemiche quali, ad esempio, l’assenteismo ed il tasso di errori e parallelamente aumentare la soddisfazione lavorativa”.
Nella ricerca, continua Bussotti, si trova piena conferma “di una serie di elementi che la psicologia del lavoro professa da quando è nata e cioè da oltre un secolo: le risorse lavorative e personali (es. autonomia, comunicazione, autoefficacia, ecc.) riducono la possibilità di sviluppare conseguenze lavorative e personali negative (es. esaurimento psicofisico, quiet quitting, disturbi muscoloscheletrici), mentre alcuni stressor (es. conflitto e/o difficoltà di conciliazione lavoro-famiglia), si correlano invece con l’aggravarsi di queste situazioni. Il mio stupore è piuttosto dato da una riflessione e cioè, che ancora oggi, ci siano resistenze ad accettare e mettere in pratica quello che ormai è un dato ampiamente dimostrato dalla letteratura scientifica e delle evidenze empiriche. Conosciamo le leve per benessere e produttività, conosciamo gli ostacoli e le conseguenze negative. Le prove ci sono. Ora i tempi sono maturi per il fare”.
Fonte: askanews.it
Patologia incurabile dalla diagnosi complessa. Settembre è il mese dedicato allasensibilizzazione sulla PCOS
La sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) è una condizione cronica che non può essere curata. La causa è sconosciuta e con una diagnosi complessa è uno dei disturbi ormonali più comuni che colpisce circa l’8-13% delle donne in età riproduttiva (Organizzazione Mondiale della Sanità). Proprio settembre è il mese dedicato alla sensibilizzazione su questa patologia, molto diffusa ma talvolta poco conosciuta.
“La sindrome dell’ovaio policistico ha un impatto significativo sulla salute metabolica e riproduttiva della donna e fino al 70% dei casi non viene diagnosticato – spiega Marco Grassi, ginecologo presso l’ospedale ‘C. e G. Mazzoni’ di Ascoli Piceno – l’origine della condizione rimane ancora oggetto di discussione, ma le donne con una storia familiare di diabete di tipo 2 corrono un rischio più elevato. Tuttavia, si può affermare che la PCOS rappresenta una complessa alterazione funzionale del sistema riproduttivo, caratterizzata da un aumento degli ormoni maschili (androgeni). Questo squilibrio ormonale porta a sintomi come eccessiva peluria sul viso e corpo (irsutismo), acne e calvizie di tipo maschile (alopecia androgenetica), e disturbi mestruali che includono cicli irregolari, assenza prolungata delle mestruazioni o cicli anormalmente lunghi. Inoltre, la sindrome si manifesta con l’ingrossamento delle ovaie, aumento del numero dei follicoli disposti perifericamente, alterazioni endocrinologiche e metaboliche, tra cui iperandrogenismo, resistenza all’insulina e iperinsulinemia. E’ importante notare che non sempre l’ecografia mostra chiaramente ovaie policistiche e alcune donne con PCOS potrebbero avere immagini ecografiche non indicative della condizione”.
Il trattamento della sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) è strettamente personalizzato, in quanto dipende dalle caratteristiche cliniche specifiche della paziente e dai suoi obiettivi riproduttivi e dal desiderio di avere figli.
“Nel caso in cui la paziente presenti sintomi come irregolarità mestruali, acne o irsutismo (eccessiva crescita di peli), può essere consigliata una terapia a base di pillole anticoncezionali contenenti estrogeni e progesterone per regolarizzare il ciclo mestruale e ridurre i livelli di androgeni, responsabili di molti dei sintomi tipici della PCOS. Per le donne che desiderano concepire, invece, l’approccio terapeutico cambia. In questi casi, si adottano trattamenti volti a stimolare l’ovulazione, con l’obiettivo di ripristinare la fertilità. Nelle pazienti in sovrappeso o obese, una perdita di peso è altamente raccomandata poiché può migliorare significativamente i sintomi e la risposta ai trattamenti. Un approccio basato su una dieta equilibrata e un’attività fisica costante non solo favorisce la perdita di peso, ma migliora anche il metabolismo e contribuisce a un migliore controllo della sindrome”.
La PCOS non implica necessariamente sterilità, come spiega il Ministero della Salute, e si ricorre all’induzione dell’ovulazione se la anovularietà è sistematica e unica causa dell’impossibilità di procreare. Inoltre stili di vita sani e corretti da tenere fin dalla giovane età della donna aiutano a prevenire questa particolare condizione clinica.
Fonte: askanews.it
Bilotta (direttore “Alma Res”): incidono età e comportamenti, ma spesso cura esiste
Combattere l’inverno demografico è una delle grandi sfide del nostro tempo. Con appena 379mila bambini venuti al mondo, il 2023 ha evidenziato nel nostro Paese l’ennesimo minimo storico di nascite, l’undicesimo di fila dal 2013. Il trend della denatalità dal 2008 (577mila nascite) non ha conosciuto soste, determinato sia da un’importante contrazione della fecondità (numero di figli per donne in età riproduttiva) sia dal calo del numero di donne in tale fascia di età (per l’invecchiamento della popolazione). Il numero medio di figli per donna negli ultimi sessant’anni è sceso dal 2.70 (1964) a 1.20 (2023) e già da quarant’anni non supera l’1.5 (1.48 nel 1984). Il bassissimo numero medio di figli per donna interessa tutto il territorio nazionale (Nord: 1.21; Centro: 1.12, Sud e Isole: 1.24), mentre fino a trent’anni fa la fecondità era molto superiore nel Sud rispetto al Centro e al Nord (basti pensare che nel 1964 era 3.30 nel Mezzogiorno, 2.38 nel Centro e 2.37 nel Nord).
Un problema, quello della denatalità, causato non soltanto da ragioni economico-sociali (stipendi bassi, aumento del costo della vita, mancanza di servizi a sostegno delle famiglie, etc.), ma anche dalle crescenti difficoltà di concepimento nelle coppie che desiderano avere un figlio. In Italia è stata istituita la Giornata nazionale della salute riproduttiva (22 settembre), proprio con l’obiettivo di promuovere l’attenzione e l’informazione sul tema della fertilità.
“Secondo le stime dell’Istituto Superiore di Sanità, in Italia circa il 15% delle coppie è infertile e questa condizione può dipendere in egual misura sia dalla donna che dall’uomo. Non esistono in Italia dati specifici sulla prevalenza di questo fenomeno – afferma il Professor Pasquale Bilotta, direttore del Centro Fecondazione Assistita “Alma Res” di Roma -. Generalmente si parla di infertilità di coppia in caso di mancato raggiungimento della gravidanza dopo un anno di rapporti sessuali regolari e non protetti. Tra le cause primarie vi è senz’altro il fattore età – dai 40 anni in poi la percentuale di fertilità media è il 20% rispetto a quella riscontrata a 25 anni – ma anche abitudini non sane, come fumo, consumo di alcol oppure condizioni psicologiche limitanti, quali ansia e stress da ritmi di vita/lavoro troppo frenetici. Spesso, comunque, parliamo di patologie prevenibili facilmente curabili, per questo è molto importante una corretta informazione”.
Secondo i dati più recenti dell’ISS, nel 2021, oltre 86.000 donne in Italia si sono sottoposte a trattamenti di fecondazione assistita. La fascia d’età più rappresentata è quella tra i 35 e i 40 anni, seguita dalla fascia tra i 30 e i 35 anni. Il tasso di successo delle procedure varia in base all’età della donna e alla tecnica utilizzata, con una media nazionale del 25% di gravidanze per ciclo di trattamento di fecondazione in vitro. Le donne sotto i 35 anni hanno registrato i tassi di successo più alti, con una percentuale che raggiunge il 40%, mentre per le donne sopra i 40 anni il tasso di successo scende al 15%.
“Non esiste un percorso universalmente valido per tutte le coppie – spiega il Professor Bilotta – Per questo, l’obiettivo primario del nostro Centro è ricercare approcci personalizzati, basati su caratteristiche genetiche e biologiche individuali. Non solo: puntiamo al miglioramento delle tecniche di congelamento e scongelamento di ovociti ed embrioni e investiamo nello sviluppo di nuove metodologie per la diagnosi precoce di malattie genetiche rare”.
Secondo il direttore di Alma Res – che vanta oltre 17mila trattamenti di riproduzione assistita realizzati e più di 7mila bambini nati – è fondamentale continuare a migliorare il quadro normativo per assicurare un accesso equo e sicuro per tutti: “Nel Lazio, per esempio, le coppie che decidono di ricorrere alla fecondazione assistita tramite SSN si recano in altre regioni. Le motivazioni sono legate alla scarsa offerta pubblica o convenzionata nel territorio regionale, lunghe liste d’attesa e costi elevati. Con altri 21 Centri autorizzati privati, stiamo costituendo un Coordinamento a livello regionale: auspichiamo la creazione di un Network di centri pubblici e privati, disponibili a erogare prestazioni in convenzione con il Servizio sanitario nazionale, in modo da aumentare l’offerta e garantire alle coppie un maggiore accesso ai trattamenti di fecondazione assistita”.
Fonte: askanews.it
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